Intervista su RaiPlay

Chi sono

Se preferisci una biografia più formale o tradizionale, ecco qui

Sono nato a Napoli il 20 maggio del 1968 tra due sud. Quello di mio padre Araya, nato in Africa, Eritrea, e quello di mia madre Paola, figlia di Napoli.
Due tipi differenti di immigrati, se volete, entrambi uniti dalla necessità, più che il desiderio, di trovare qualcosa di meglio a nord dei rispettivi luoghi d’origine.

Alessandro Ghebreigziabiher
Così, il sud del mondo e quello italiano si sono incontrati per mezzo dei miei coraggiosi genitori alla fine degli anni ’60 a Napoli, dando vita a un’antesignana “coppia mista” in un Paese tutt’altro che pronto ad accettarla, anche se dopo più di sessant'anni non sono sicuro che le cose siano cambiate quanto vorrei.
Quindi, ancora molto piccolo, ho seguito i miei a Roma che è divenuta la mia città di ieri, di oggi e molto probabilmente anche di ogni domani che verrà.
Non ho avuto un’infanzia facile e neanche l’adolescenza è stata una passeggiata, sia per motivi familiari che personali ed economici. Ma vi do la mia parola che le differenze etniche e culturali dei miei non sono mai state un problema. Casomai, una delle risorse che mi hanno aiutato a venire fuori da una situazione davvero complicata.
Ciò non toglie che non è stato affatto facile venire al mondo in Italia alla fine degli anni ‘60 con la mia carnagione e le mie origini. Basti pensare che sono stato l’unico studente dalla pelle scura in ogni istituto scolastico sin dall’asilo perlomeno fino all’università e anche oltre. Così come nel quartiere, negli oratori e i campi di gioco, e soprattutto al mare, dove tale sopravvalutata peculiarità diviene più evidente.
Questo per dire che so cosa sia il razzismo, l’ho vissuto fin da bambino e lo vivo ancora oggi sulla mia pelle, e solo per questo talvolta ne parlo mosso dalla convinzione di avere una qualche autorevolezza per farlo. Ma ancora meglio conosco la solitudine e il disperato bisogno di trovare da qualche parte un appiglio per sopravvivere alla sofferenza. Ciò malgrado, tengo a precisare che nonostante tutto mi ritengo ancora oggi una persona estremamente fortunata e che ho sempre affrontate le cose con il sorriso sulle labbra. Perché per quasi ogni ostacolo, ho trovato dentro di me i doni per affrontarlo. La vita mi ha insegnato che là fuori ci sono miliardi di persone che non ci sono riuscite, spesso perché qualcun altro fa di tutto per rendergli il compito difficile o addirittura impossibile.
Credo sia anche per tutti questi motivi che fin da molto giovane mi sono innamorato delle storie. Per tale ragione ne ho lette un’infinità e ne continuo a leggere avidamente. E per il medesimo motivo le scrivo e le racconto. Un tempo lo facevo senza saperlo. In seguito ne sono divenuto più consapevole e ciò mi ha donato grande serenità.
È difficile credere che scrivere sia effettivamente la propria strada. Alla fine degli anni Ottanta, in occasione degli esami di maturità, feci forse il miglior tema della mia carriera liceale. In tutti i sei anni precedenti – confesso pubblicamente di essere stato bocciato in terzo per due materie, anche se in quel tragico periodo la scuola era l’ultimo dei miei problemi – al compito d’Italiano a mala pena riuscivo a ottenere la sufficienza. Solo all’esame finale ne compresi il perché: il problema erano sempre state le tracce. Alla maturità, afferrai la penna e raccontai gli anni trascorsi al Liceo Keplero di Roma. Ricordo ancora le parole dell’esaminatrice, la professoressa di lettere. Mi disse che nonostante fossi uscito totalmente fuori tema a suo avviso il mio testo era valido e che sarebbe stato da pubblicare. Così, mi chiese cosa avessi intenzione di fare dopo il liceo. Ora si dà il caso che fin da bambino mostrai una facilità impressionante nell’apprendimento della matematica. Niente di eccezionale, semplicemente avevo una dote innata che peraltro in seguito ho perso. Ovvero, quella di compiere operazioni e calcoli a mente anche tra numeri di tre cifre in pochi secondi. Ebbene, come molti della mia generazione, con la testa piena di sciocchezze sul pericolo di farsi illudere dai propri sogni, risposi che mi sarei iscritto a ingegneria perché così avrei avuto più facilità a trovare lavoro.
“Che peccato”, osservò l’esaminatrice, “sei un giovane portato per le lettere…”
A ingegneria ho resistito per ben due anni, riuscendo persino a conseguire quasi tutti gli esami del biennio, ma poi qualcosa si è incrinato dentro di me e ho iniziato a percepire un’urgenza assordante che poi ho ascoltato e assecondato. Nel mentre era scoppiata la passione per il teatro e il sociale. Il matrimonio tra questi due mi condusse nel 1995 alla Comunità di recupero per ex tossicodipendenti San Carlo, del Centro Italiano di solidarietà (CE.I.S.), in qualità di obiettore di coscienza. Tengo a ribadire che la mia scelta fra il Servizio civile e quello militare, ancora prima che di principio, fu logica, ovvero realistica: io volevo veramente donare un anno alla mia patria. Tutte le persone che conoscevo e che avevano svolto il servizio di leva mi avevano raccontato che avevano trascorso un anno senza fare nulla di importante e, per il sottoscritto, il tempo ha sempre avuto un grande significato per ovvie ragioni. In quell’anno in comunità ho dato tutto me stesso, eppure, ancora oggi, sento che sia molto poco rispetto a ciò che ho imparato, di me e soprattutto del prossimo.
Nel frattempo cambiai facoltà e trasferii il mio seppur esiguo bottino di esami a Scienze dell’informazione. Il vero motivo? Era comunque una laurea pragmatica e con ottimi sbocchi lavorativi, cosa che addolcì almeno in parte l’amarezza di mio padre, ma era al contempo meno impegnativa di ingegneria e così avrei avuto più tempo per il teatro e il sociale, ma anche la musica e più che mai le persone.
Così ero di nuovo ulteriormente in mezzo a due mondi differenti. Ancora tra due sud ma anche tra la freddezza dei computer e l’imprevedibilità delle mie passioni più irrefrenabili.
L’anno cruciale è stato il 1998, quello della laurea. Ebbene sì, un giovane da una storia così complicata e travagliata è riuscito a  guadagnarsi il sospirato pezzo di carta, come si diceva una volta. Nondimeno, è il momento delle confessioni e mi rivolgo in questo istante alla professoressa che mi diede 30 in Analisi II. Prof, si ricorda di me? Si rammenta quando all’orale mi pose il primo quesito e io rimasi in silenzio? Ricorda che, convinta che fossi straniero, mi domandò se avessi problemi con la lingua italiana e il sottoscritto le rispose di sì? Mi perdoni, ho mentito spudoratamente…
Qualche mese prima della discussione finale mi presentai dal responsabile della comunità e mi proposi ufficialmente come “animatore teatrale del disagio” al Centro Italiano di Solidarietà, la cui direzione mi rispose affidandomi ben tre laboratori con partecipanti provenienti da altrettanti diversi programmi di recupero. Ma dopo l’estate iniziai a lavorare anche come insegnante di informatica. Ancora in mezzo, stavolta tra le normali lezioni in una scuola e quelle particolari nei luoghi di cura.
In quello stesso anno scrissi Tramonto, il monologo teatrale che nel 2002 è diventato un libro per ragazzi con la casa editrice Lapis. Una metafora semplice: tramonto, tra giorno e notte, tra luce e buio, una maschera inevitabilmente in mezzo tra due mondi. Due anni prima dell’uscita di quello che è stato il mio primo libro, nel 2000 compresi che al di fuori del teatro le maschere sono il peggior ostacolo per chi desideri raccontare qualcosa che abbia a che fare con la realtà quotidiana. Se non altro che viaggi nella direzione di quest’ultima. Così, presi il tanto sospirato pezzo di carta e lo riposi in un metaforico cassetto, per dedicarmi unicamente al lavoro come animatore teatrale del disagio o meno.
È stata una scelta difficile che più volte negli anni mi sono ritrovato a mettere in discussione e poi riconfermare con ulteriore convinzione.
In quei giorni ho scelto di guadagnare di meno e di avere meno sicurezza economica, ma la realizzazione che ho trovato svolgendo una professione che ha valore prima di ogni cosa dal punto di vista umano non ha prezzo.
Nel 2005 un altro anno estremamente significativo ha condizionato il mio viaggio.
In maggio il programma del CE.I.S. nel quale avevo lavorato nei precedenti cinque anni all’improvviso si vede tagliati i fondi e il sottoscritto, alla veneranda età di 37 anni, rimane disoccupato e con un figlio di un anno, sebbene condiviso con una meravigliosa compagna che si chiama Cecilia Moreschi.
Se tutto ciò non bastasse, nell’agosto seguente vengo a sapere che mio padre ha il cancro ai polmoni e che i medici gli hanno prescritto al massimo sei mesi di vita.
Una parte di me era a pezzi. Come scrittore tanti manoscritti e un solo libro pubblicato. Con il teatro si guadagnava poco come sempre e come professionista del sociale non avevo alcun titolo di studio vendibile, tipo educatore o psicologo. Tanta esperienza e formazione sul campo, ma nessun pezzo di carta coerente. Certo, mi direte voi, avevo ancora una laurea in informatica. In quell’anno ho inviato migliaia di curriculum, ma senza fortuna. Così, mi convinsi che non avevo altra scelta oltre a quella di continuare su quella che avevo preso. Durante l’estate buttai giù l’idea del Laboratorio interculturale di narrazione teatrale - in seguito solo laboratorio di teatro narrazione - dal titolo Il dono della diversità, che fece il suo debutto a novembre dello stesso anno e dell’omonima rassegna che prese vita nel 2007.  Nello stesso tempo il CE.I.S. mi propose di tenere almeno un laboratorio teatrale. Meglio di nulla, no?
All’inizio del 2006 uno dei due sud di cui sopra ci lascia. Araya, dall’Africa all’Europa, dall’Eritrea all’Italia, da Napoli a Roma, Buio, il padre di Tramonto, viene sepolto nella capitale. Da quel giorno, le pochissime cose che faccio di buono so che sono anche per lui.
Nel 2017 se n’è andata anche mia madre Paola. Luce, la mamma napoletana che è partita dal sud del nostro Paese con il desiderio di illuminare la sua vita e quella del buio della persona di cui si è innamorata. Non è stata facile la loro vita insieme, per colpa anche di problemi psicologici e di dipendenza le cui conseguenze sono ricadute inevitabilmente sui loro figli, ma l’amore non è mai mancato ed è questo che conta, alla fine.
Dopo Tramonto sono arrivati molti altri libri, spettacoli di narrazione teatrale, rassegne e festival e soprattutto incontri con gente speciale e incredibilmente interessante, ma anche tanto lavoro nei luoghi dove le persone vengono a chiedere aiuto e ascolto per il proprio disagio, dimostrando una forza straordinaria.
Da più di trent'anni, accanto a quello per la scrittura e il teatro, impegno parte del mio tempo lavorativo in ambito clinico e terapeutico tra comunità e centri di salute mentale. In particolare, dal 2010 conduco laboratori teatrali e di scrittura creativa in un centro diurno per adolescenti con problemi psichiatrici che si chiama Navigando i confini, il quale mi dona la fortuna quotidiana di scoprire e riscoprire quanto i giovani siano ricchi di talenti nascosti e potenzialmente speciali nonostante la tragicità delle loro situazioni familiari. O chissà, forse proprio per questo.
Che dire, malgrado tutto, mi sento infinitamente grato della vita che ho fatto fin qui.
Ciò nonostante, la cosa migliore che ho sono la mia compagna e i nostri due figli.
La mia speranza più grande è ancora oggi di riuscire ad aiutarli a realizzare i loro sogni.

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